Pubblicato il 15 Gennaio 2007
“C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?” Nella storia di Itaca il titolo del Meeting di Rimini, edizione 2003, costituisce un momento di particolare rilievo.
Da tre anni eravamo in una nuova sede, il clima aziendale era buono, l’andamento complessivo pure. Mi colpiva una frase che sentivo dire frequentemente dai miei collaboratori: “A Itaca si sta bene“. Proposi di trascorrere insieme un pomeriggio per riguardare il cammino che stavamo facendo alla luce di quella frase: “C’è un uomo che vuole la vita e desidera giorni felici?“.
Mentre mi recavo al luogo del ritrovo, un agriturismo sulle colline di Casola Valsenio, fui colpito da questo pensiero, che un’opera prende inevitabilmente la fisionomia di chi la fa e che quindi non dovevo temere il mio essere, così com’era: temperamento, capacità, limiti, sensibilità… Mi fu chiaro che l’opera non è la traduzione concreta di un principio astratto, ma il compito affidato ad una persona in carne e ossa, che dà ad essa la forma del proprio “io”.
Durante l’incontro raccontai la storia di Itaca, ciò che mi muoveva; il dialogo fece emergere ciò che era all’origine di quello star bene: “Poichè tu ci tratti con rispetto, anche noi abbiamo imparato a trattarci con rispetto“. Nella mia mente si sovrapposero la spiegazione che don Giussani dà di questa parola (“guardare una persona, una cosa, ma tenendone presente un’altra che dall’orizzonte domina, come il sole… Sei nel centro del mio occhio e del mio cuore, ma sull’orizzonte ultimo, tenuta presente con la coda dell’occhio, un’altra figura ti illumina, ti dà vita, ti dà carne, ti dà ossa, ti dà esistenza: sei mia perchè sei di un Altro” – Il tempo e il tempio, pp. 90-91) e l’esperienza che ne avevo fatto nel rapporto con alcuni amici da cui io per primo mi ero sentito trattato con grande rispetto.
Quell’esperienza, come per osmosi, aveva raggiunto anche i miei collaboratori che l’avevano fatta propria fino a farla diventare forma del rapporto tra loro.
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